Il mistero della psiche umana

Il mistero della psiche umana

Introduzione alla psicologia

    Nessuno ricorda i suoi primissimi pensieri, quel momento così particolare, in cui per noi tutto ha inizio. Il momento in cui comprendiamo di esistere, il momento in cui cominciamo a essere. Oramai conosciamo tantissime cose sull’universo, sulle galassie e i pianeti più remoti, lontani anni luce da noi. Eppure sappiamo sempre troppo poco su questo specialissimo universo che portiamo dentro di noi e che fa di noi un essere umano, una personalità individuale unica e irripetibile. L’unica creatura che riflette su se stessa, per quel che ne possa dire qualsiasi appartenente all’umanità. Noi non solo possiamo pensare, sentire, sognare, agire, ma ci chiediamo anche come e perché facciamo tutte queste cose. Tale facoltà di sdoppiamento della mente umana tra il soggetto e l’oggetto o, in termini di filosofia della mente, tra le funzioni cerebrali e la coscienza riflessa, quando distingue tra l’io e il me, l’io istanza del giudizio e il me teatro degli avvenimenti psichici: un io che può guardare se stesso, interrogarsi su se stesso, modificare se stesso, attesta come l’attività riflessiva del pensiero con cui l’io diventa cosciente di sé. Attività riflessiva da cui si può avviare un processo di introspezione, una struttura dialogizzante in cui si volge una conversazione interna tra sé e sé: ciò è possibile proprio in quanto il cervello umano non risponde a un rigido determinismo, non è programmato per ogni sua funzione, non è istruito dai geni in ogni suo dettaglio. Nel corso dei secoli, tale tipo di riflessione ha assunto molte forme, dal semplice porsi domande ai racconti e alle canzoni tramandati fino a noi dalle tradizioni popolari, alla poesia e alla letteratura, fino alla formazione di sistemi teologici e filosofici. Pertanto alla fine la riflessione dell’essere umano su se stesso assunse anche un carattere scientifico, arrivando a dar corpo a quella scienza denominata “psicologia”.

In particolare, essa nasce nell’ambito delle scienze filosofico-umanistiche per aprirsi successivamente alla metodologia di studio e di ricerca delle scienze naturali, ed adottarne i criteri di sperimentazione, osservazione e quantificazione. Tuttavia, l’individuazione della genesi di una tale disciplina scientifica come sapere autonomo non è molto antica. Infatti, ha storia e tradizioni consolidate dal XIX secolo, sebbene il termine “psicologia” risalga al XVI secolo, epoca nella quale, nei paesi di lingua tedesca, esso veniva impiegato in un contesto teologico. Il termine sarebbe stato utilizzato per la prima volta da Melantone, filosofo tedesco allievo di Lutero. Secondo l’etimologia, la parola “psicologia” designa lo studio dell’anima. In realtà, l’ambito abbracciato da questo termine, composto da due radici greche, va ben al di là del significato letterale. L’idea di una psicologia in senso moderno emerge soltanto nel XVIII secolo, nel pensiero del filosofo tedesco Christian Wolff. Oggi la psicologia, secondo una sintetica e non esaustiva formulazione, concerne lo studio dei processi mentali, in tutti i suoi aspetti e nelle sue diverse manifestazioni, del comportamento e delle relazioni che ne derivano. In particolare con il termine “mente” intendiamo un complesso insieme di attività attentive, cognitive e mnesiche, di stati emotivi ed affettivi interni, privati, soggettivi, che, non sempre e non necessariamente, si traducono in comportamento. Tra gli oggetti di studio e di approfondimento di tale disciplina citiamo ad esempio l’apprendimento, la memoria, la personalità, la sfera dell’inconscio, l’intelligenza, l’affettività, le forme organizzative ed i gruppi.


Uno sguardo alle neuroscienze

    Era il 1981 ove la locuzione stessa “neuroscienze”, introdotta dal Premio Nobel Eric Kandel, simboleggiava poco più di un neologismo. Da allora, in questi ultimi decenni, i progressi sono stati così incisivi e profondi che l’impostazione neuroscientifica ai processi cognitivi è sostenuta dalla quasi totalità degli studiosi, ossia, secondo i quali la mente può essere completamente naturalizzata, spiegata essenzialmente con le leggi delle scienze naturali. Ormai è usuale sentir disquisire dei complessi sistemi genetici che stanno alla base delle proprietà dei neuroni e delle loro alterazioni. Sono stati enfatizzati e studiati i modelli di “neuroplasticità”, con cui fattori nervosi d’induzione e di crescita provvedono allo sviluppo del sistema nervoso, secondo un assetto che assicura ad ogni singolo neurone embrionale di espletare poi il proprio ruolo morfo- funzionale all’interno di quella, sofisticata e formidabile, rete neurale che è il sistema nervoso. Un grande progresso delle neuroscienze lo si deve all’evoluzione tecnologica nell’ambito della biologia molecolare, che ha concesso un enorme ampliamento della visione sulle microstrutture dei neuroni e suoi loro correlati funzionali. Inoltre, con l’avvento delle recenti tecniche di visualizzazione cerebrale, in vivo, nell’uomo, si è osservato un salto qualitativo formidabile nell’analisi dei processi cognitivi. Attualmente i metodi di neuroimaging in vivo permettono di evidenziare quali sono le aree cerebrali e, talora, perfino i circuiti neuronali, implicati nella genesi e nella espressione di molti processi mentali. Recentemente si è anche riusciti ad avere un’immagine tridimensionale dell’intera struttura molecolare di un canale ionico e si è ulteriormente approfondito il grado di comprensione dei recettori accoppiati ai sistemi intracellulari di secondo messaggero e degli effetti di tali sistemi sulla modulazione delle risposte fisiologiche dei neuroni. Ulteriormente, la biologia molecolare, in perpetua progressione, ha ampliato le conoscenze in merito alle modalità di come il cervello si evolve e di come induce diversi comportamenti complessi, sin dalle prime fasi della vita. Lo studio dello sviluppo nervoso, condotto a partire dalle determinanti genetiche, si è mutato da disciplina descrittiva ad analisi di una serie di processi complessi su base molecolare, che illustrano con precisione il destino delle singole cellule, i loro modelli di migrazione, le fasi di crescita degli assoni, il riconoscimento dei bersagli cellulari e la genesi delle sinapsi.

Tuttavia, la coscienza è intrinsecamente più complessa da comprendere rispetto ad altre funzioni più semplici, come il controllo motorio e sensoriale. In quanto, sebbene la strategia riduzionista provi a spiegare i macrolivelli, capacità neuropsicologiche e cognitive, in termini di microlivelli, proprietà della rete neurale, ossia dei meccanismi sottesi alle funzioni psichiche. Poiché, seppur di complessità computazionale, tutte le caratteristiche del sé cosciente, in qualsiasi momento, sono interamente fissate dallo stato, in quell’istante, dei microelementi, dei neuroni, et cetera, infatti, da un punto di vista causale non c’é nulla se non dei microelementi. Lo stato dei neuroni determina lo stato della coscienza, ovvero, in ogni stante, lo stato totale della coscienza è indotto dal comportamento dei neuroni. Benché la coscienza potrebbe non essere causata da un pattern di attività neurale, ma essere puramente un pattern di attività neurale, come parafrasando, il calore non è causato dall’agitazione termica, molecolare o energia cinetica molecolare: esso stesso è energia cinetica molecolare e quindi asserire che il calore è movimento molecolare è coerente, mentre non è possibile dimostrare che il calore è causato dal moto molecolare. Ad oggi, comunque, lo dello stato di coscienza e della mente si pone al limite delle visioni biologiche. Sebbene le neuroscienze hanno compiuto notevoli progressi in questi ultimi decenni, le nostre conoscenze neurobiologiche appaiono ancora insufficienti a comprendere come le innumerevoli e complesse capacità del sistema nervoso umano, che includono ad esempio: percezione, sensazione, memoria, apprendimento, sognare, prestare attenzione ed essere consapevoli, siano attribuibili al funzionamento neurale. Inoltre resta irrisolto l’essenziale quesito:  il Sé può collocarsi nel cervello o ,persino, identificarsi mediante le sue funzioni? Probabilmente tale interrogativo accompagnerà ancora per molto tempo la ricerca in ambito scientifico.


    Le relazioni tra la mente e la neurobiologia possono dipingere uno scenario che, vista la sua complessità, può apparire irresolubile, sebbene lo stesso Freud sosteneva che “Un giorno sarà possibile rappresentare il funzionamento psichico negli elementi organici del Sistema Nervoso” nel suo “Progetto di una psicologia”, nel lontano 1895. A tal proposito, il neuroscienziato Eric Kandel nei suoi “Principi di Neuroscienze” sottolinea che “L’ultima frontiera delle scienze biologiche, l’ultima sfida, è capire le basi biologiche della coscienza e dei processi mentali mediante i quali noi percepiamo, agiamo, impariamo e ricordiamo”. Le problematiche emerse dalla neuropsicologia sperimentale e dalle neuroscienze, attualmente si manifestano difficili e articolate, tuttavia gli sviluppi della tecnologia e del sapere, in un prossimo futuro, potrebbero condurre ad una obiettiva e sintetica visione su solide basi scientifiche e a sorprendenti novità sulla natura della mente umana e della coscienza. Del resto, ciò che sino a poco tempo fa era un complesso oggetto di ricerca, oggi giorno è oggetto d’apprendimento didattico. Le verità profonde sono tutte, allo stesso tempo, semplici e difficili da cogliere. L’umanità ha impiegato migliaia di anni di cultura prima di definire lo spazio non euclideo, lo spaziotempo di Minkowski, la tavola periodica degli elementi. Ancora, l’ipotesi eliocentrica avanzata circa nel III sec. a.C dall’astronomo d’Aristarco di Samo ha raccolto evidenze scientifiche soltanto, anche qui, dopo migliaia di anni.


La Realtà

    L’evolversi della vita complessa, anzi l’esistenza stessa della vita in un universo che obbedisca a leggi fisiche, è meravigliosamente sorprendente, o meglio, lo sarebbe solo se lo stupore non fosse un’emozione, che può esistere solo in un cervello, che è il prodotto di quello stesso processo sorprendente. In un senso antropico, quindi, la nostra esistenza non dovrebbe stupire. La storia della scienza è una storia di esplorazione e poi di evoluzione. E’ da Platone in poi che ci si interroga sulla natura della realtà e la scienza ipotizza un mondo esterno reale indipendente dalle percezioni, i corpi sono definiti da valori che corrispondono alle loro misurazioni e sono oggettivi sia l’osservatore che l’osservato. Nel campo della filosofia questo è il realismo, tuttavia da quasi un secolo, tutto ciò viene contraddetto dalla teoria quantistica e dalle conoscenze da essa derivanti, poiché nel mondo subatomico regna la legge di indeterminazione e le misure nei rilevamenti strumentali non danno valori certi, ma di probabilità e di ordine statistico. In particolare, non è l’incertezza della misurazione a nascondere la realtà, al contrario, è la realtà stessa a non fornire mai certezze nel senso classico-galileiano del termine. In quanto, l’atto stesso del misurare costringe il sistema a scegliere tra le varie possibilità, ovvero, l’arrivo sulla scena di una altro sistema, azzera tutte le possibilità tranne una, facendo collassare lo stato quantico in una delle moltissime alternative. Dunque l’aspetto cardine di notevole rilevanza risiede nell’osservazione stessa, ossia nel processo nel quale un soggetto, identificato come osservatore, osserva la realtà, poiché in conseguenza di ciò l’osservabile e l’osservato sono diversi. In particolare per osservabile si vuole intendere la realtà o qualsiasi corpo, fenomeno fisico parte di essa, ossia l’oggetto della osservazione. Mentre l’osservatore è lo strumento di misura, colui che osserva la realtà fisica ovvero l’osservabile. Infine l’osservato è il risultato dell’osservazione, ovvero la rappresentazione che l’osservatore ottiene dell’osservabile attraverso gli strumenti di misura. In altre parole l’osservabile e l’osservatore sono diversi, innanzitutto perché la rappresentazione che l’osservatore ottiene della realtà non è altro che quello che i sensi e gli strumenti di misura ci mostrano della realtà, indi per cui l’osservatore non è la realtà in sé ma la realtà come ci appare, poi poiché il solo fatto di osservare la realtà provoca una alterazione della realtà stessa. Infatti tale alterazione può essere trascurabile, come nel misurare un tavolo con il metro, oppure determinante, come nell’effetto Compton, in ogni caso l’osservazione muta lo stato dell’osservabile e lo trasforma in osservato. Nonché l’interazione tra osservabile ed osservatore determina il conoscibile, l’osservato, come il risultato di un processo di misura che determina lo stato del sistema in esame. Questo non significa che lo stato dell’osservabile non sia noto, solo che non lo è nel senso classico, in quanto prima dell’osservazione lo stato dell’osservabile è la sovrapposizione lineare pesata di tutti i suoi possibili stati, dove ciascun peso rappresenta la probabilità che quel particolare stato si manifesti. L’osservazione determina lo stato dell’osservato. Di conseguenza nel passaggio dalla fisica classica a quella quantistica non si ha solo un cambiamento di definizione dei concetti ma il mutamento stesso della realtà.
 

    La realtà, intesa con ciò che esiste effettivamente, di solito in contrasto a ciò che è illusorio, immaginario o fittizio e a volte viene anche contrapposta al sogno, pone diverse questioni sia nella scienza sia nella filosofia, entrando in contatto con la domanda ontologica dell’essere. Il termine realtà deriva dal latino res con affinità al sanscrito «possesso, bene, ricchezza», ovvero un oggetto materiale, e il sostantivo realitas, da cui realtà, compare soltanto nel tardo Medioevo ad opera di Duns Scoto, ma non per indicare la totalità di ciò che costituisce il “fuori” della coscienza umana, bensì l’individuazione (la realtà ultima del singolo ente che esiste). Tale concetto si contrappone all’idea latina di abstracta (quidquid credat intellectus de rei veritate = ciò che l’intelletto crede in merito alla verità della cosa). L’etimologia mostra subito quale siano i problemi e le relazioni con altri termini fondamentali della filosofia: “essere” e “verità”. La relazione con tali altri termini è essenziale per la comprensione del concetto stesso di “realtà”. In generale la metafisica, ossia una delle branche fondamentali della filosofia, tende ad avere una concezione di “realtà” molto più ampia della scienza, andando alla ricerca del fondamento o dell’essenza nascosta dietro il semplice fenomeno fisico offerto all’evidenza dell’indagine strumentale.

Dunque, in prima istanza il concetto di realtà è intrinsecamente legato all’ontologia, cioè alla disciplina filosofica che si occupa di ciò che esiste. Un problema tipico dell’indagine ontologica può essere formulato come segue: cosa si intende quando si afferma che “una cosa esiste”? Considerando questi presupposti: esiste qualcosa, esiste qualcosa di materiale, esiste qualcosa di materiale che è diverso dal soggetto che conosce. Allora potremmo affermare: esiste un oggetto  “ob-iectum” = “che sta davanti” che è diverso dal soggetto  “sub-iectum” = “che sta sotto” conoscente. Il percorso qui sopra indicato (molto generico) illustra gli altri problemi legati al concetto di realtà: problema della gnoseologia: in che modo conosciamo l’oggetto? Tutti i soggetti lo conoscono allo stesso modo (cioè è una conoscenza “oggettiva”)? Problema della verità: ciò che conosciamo è ciò che l’oggetto è veramente ? Oppure in realtà è diverso? Esisterebbe anche se non lo conoscessimo? Problema della certezza: la conoscenza dell’oggetto da parte del soggetto è sicura, innegabile? Problema della metafisica: esiste qualcosa di non materiale, un qualcosa di cui possiamo dire che esiste ma che non sia “res”? Perché esiste qualcosa anziché nulla? A tal proposito si vede da questa introduzione, del tutto generale, come tali termini (esistenza, verità, realtà, certezza, soggetto, oggetto) siano strettamente collegati, tanto che non si può chiarirne uno senza utilizzarne un altro, quasi si trattasse di prospettive diverse di uno stesso oggetto. A tal proposito conviene quindi illustrare come tali termini si sono trasformati nel corso della storia. La filosofia greca si pone il problema della corrispondenza fra la conoscenza della natura e la natura stessa, dove, in generale, non viene più messa in discussione la realtà come ciò che esiste indipendentemente dal soggetto conoscente, questione che viene in luce esplicitamente solo nella modernità a partire da Cartesio e Leibniz, poiché la presenza di oggetti esterni al soggetto è considerata un’evidenza immediata.  Anche se, tuttavia, si tratta di stabilire come avvenga la conoscenza delle cose. In tal contesto si inseriscono ad esempio le teorie epicuree delle immagini di cose, che staccandosi dagli enti si imprimerebbero nella coscienza, oppure ancora la teoria delle idee di Platone per cui, com’è noto, sono le idee ad avere lo status di realtà e verità, mentre le cose materiali e le sensazioni empiriche sono un’immagine fallace, al massimo una “copia” delle idee. Aristotele riformula interamente la questione della conoscenza e della natura, affermando che non vi è separazione fra idee e cose, ma differenti aspetti della realtà.
 

    D’altro canto noi esseri umani coscienti siamo dotati di sistemi sensoriali, caratterizzati da particolari recettori sensoriali che permettono la trasduzione dello stimolo fisico in impulso nervoso, vie neurali e specifiche aree della corteccia cerebrale, responsabili dell’elaborazione dell’informazione, nonché dell’esperienza sensoriale, che ci aiutano a decodificare ciò che percepiamo della realtà. In particolare i neurologi stimano che il nostro cervello riceve 400 miliardi di bit di informazione al secondo di cui solo 2000 arrivano a livello conscio. Inoltre l’uomo è un pessimo strumento di misura: i sensi sono per esempio illusori e fallaci, sono soggetti a limiti, non linearità, miraggi, illusioni ottiche ed acustiche, preconcetti. Il nostro cervello è esso stesso il prodotto di un’evoluzione, una mente che si è evoluta per aiutarci a sopravvivere in un mondo, in cui gli oggetti importanti per la nostra sopravvivenza non erano né molto grandi né molto piccoli. Un mondo in cui le cose stavano ferme o si muovevano lentamente rispetto alla velocità della luce e dove l’improbabile si poteva tranquillamente considerare impossibile. In contrasto con tutta la nostra intuizione evoluta, la scienza ci ha insegnato che le cose apparentemente solide come la roccia, sono composte in realtà quasi interamente di spazio vuoto. Il cervello si è evoluto per aiutare il corpo a cavarsela nella scala alla quale operano corpi come i nostri. Non ci siamo evoluti per navigare nel mondo degli atomi. Se così fosse, il nostro cervello forse si accorgerebbe che le rocce sono colme di spazio vuoto. Le rocce appaiono solide e impenetrabili al tatto perché le nostre mani non possono penetrarle. Il motivo per cui le nostre mani non possono penetrarle non sono le dimensioni e la distanza tra le particelle che compongono la materia, ma sono i campi di forza che sono associati alle particelle, separate da ampi spazi nella materia solida. È utile al cervello elaborare concetti come la solidità e l’impenetrabilità, perché essi ci aiutano a muovere i nostri corpi in un mondo dove gli oggetti che definiamo solidi non possono occupare lo stesso spazio gli uni degli altri. Se un neutrino avesse un cervello che sì fosse evoluto in antenati delle dimensioni di un neutrino, direbbe che, in realtà, le rocce consistono perlopiù di spazio vuoto. Noi abbiamo un cervello che si è evoluto in antenati di medie dimensioni, che non potevano penetrare attraverso le rocce, perciò il nostro realmente è un realmente dove le rocce sono solide. Ulteriormente, essendoci evoluti nel pianeta terra, non siamo attrezzati per gestire gli eventi molto improbabili, ma nella vastità dello spazio astronomico o del tempo geologico, eventi che sembrano impossibili nel nostro mondo, risultano inevitabili. La scienza spalanca la stretta finestra attraverso la quale siamo soliti contemplare lo spettro delle possibilità. Per un animale “in realtà” è qualunque cosa il suo cervello abbia bisogno che sia per aiutarlo a sopravvivere. Quello che vediamo del mondo reale non è il mondo reale puro e semplice, ma un modello che è elaborato in maniera da aiutare l’animale ad affrontare il mondo reale.
 

    Tuttavia, l’uomo inizia un processo evolutivo proprio in quanto è capace di distaccare parte dell’energia dall’istinto e di trasformarla nella forza trainante di una visione interiore. D’altro canto, secondo la rappresentazione junghiana, ogni  essere umano fin dagli albori della sua storia possiede anche una matrice inconscia comune: un “inconscio collettivo”. Il sostrato psichico universale della specie. La psiche individuale è collegata al corpo fisico e a una storia contingente in un rapporto unitario, analogamente, scrive Jung, “come il corpo umano, rivela, al di là di tutte le differenze di razza, un’anatomia comune, anche la psiche possiede, al di là di tutte le differenze di cultura e di conoscenza, un sostrato collettivo”. In particolare, Jung in “Psicologia dell’inconscio” propose l’ormai classica distinzione tra inconscio personale (che presenta alcune somiglianze con il concetto di inconscio teorizzato da Freud, inteso come prodotto del meccanismo della rimozione; tuttavia, per Jung, non essendo l’inconscio solamente un riflesso reattivo ma un’attività autonoma, produttiva, il suo campo d’esperienza è un mondo proprio, una realtà propria, di cui possiamo dire agisce su di noi come noi agiamo su di essa, come lo diciamo del campo d’esperienza del mondo esteriore) e inconscio collettivo. I cui “contenuti” non sono né le pulsioni né le immagini né i pensieri rifiutati dall’Io sotto l’azione del principio di realtà e sotto la pressione del Super-Io, ma alcune strutture originarie, gli archetipi (archè-typos = forma originaria), indipendenti dall’esperienza personale e rintracciabili nei prodotti inconsci e coscienti di tutta l’umanità, in ogni tempo e in ogni luogo. Sebbene il concetto di archetipo ha rappresentato per lo stesso Jung un problema di continua revisione e approfondimento, in cui è stato il fisico Wolfgang Pauli a segnalare forse fra i primi la complessa storia che ne assume, nell’arco della formulazione che va dai “Tipi psicologici” ad “Aion” (1951). All’epoca dell’ “Io e l’inconscio” esso si configura come qualcosa di assai simile all’istinto: una disposizione preformata a reagire a determinati stimoli. L’archetipo, tuttavia, non strutturerebbe tanto l’agire quanto l’inconscio: esso è la forma che, utilizzando il materiale offerto dalla percezione e dall’immaginazione conscia, nonché quello offerto dall’inconscio personale, dà origine alle immagini simboliche tipiche del sogno o di ogni stato psichico ove sia venuto meno il controllo della coscienza. Da questo punto di vista è importante evitare ogni confusione tra archetipo e immagine archetipica, tra l’operare della forma strutturatrice e il suo prodotto. In quanto quest’ultimo è sempre di natura personale, contingente, strettamente legato alla storia dell’individuo. Mentre quel che è direttamente accessibile all’esperienza è l’immagine, con il suo valore di simbolo operante, non l’archetipo in sé. In altre parole, in tale contesto Jung rileva configurazioni che non sono spiegabili con l’ipotesi pur valida della rimozione della pulsione, poiché tali configurazioni simboliche non nascono più dal mero incontro tra l’Io e il materiale rimosso, ma dall’incontro tra l’Io e un’ulteriore realtà psichica inconscia, non riducibile a esperienze personali.


La coscienza influenza la realtà?

     Max Planck, fisico teorico che ha dato origine alla teoria dei quanti, che gli è valso il Premio Nobel per la fisica nel 1918 disse: “Considero la coscienza fondamentale. Considero la materia come derivata dalla coscienza. Non possiamo rimanere indietro alla coscienza. Tutto ciò di cui discorriamo, tutto ciò che consideriamo esistente, postulazione della coscienza”. Fin dagli albori della formulazione della teoria quantistica, numerosi sono stati gli scienziati che hanno trattato la coscienza nel suo rapporto con la fisica quantistica e come potrebbe essere correlata con la natura della realtà. Isaac Newton (1643-1727), per dimostrare la natura della luce fece un esperimento oggi noto come “esperimento della doppia fenditura”. Thomas Young (1773-1829), più semplicemente ancora, aveva ideato un esperimento elegante per mostrare la natura ondulatoria della luce e, così facendo, aveva anche confutato la teoria di Newton che la luce fosse fatta di corpuscoli o particelle. Ma la nascita della fisica quantistica, nei primi anni del 1900, chiarì che la luce è composta da minuscole particelle elementari e indivisibili, detti quanti di energia, che noi chiamiamo fotoni. L’esperimento di Young, quando viene effettuato con singoli fotoni o anche con singole particelle di materia, come l’elettrone, è un enigma su cui riflettere, poiché, solleva domande sulla natura stessa della realtà. Alcuni l’hanno perfino usato per sostenere che, il mondo quantistico, è influenzato dalla coscienza umana, dando alle nostre menti un ruolo e una collocazione nell’ontologia dell’universo. Nella moderna quantistica, l’esperimento di Young, consiste nell’inviare singole particelle di luce o di materia, verso due fessure o aperture, praticate in una barriera, per il resto opaca. Dall’altro lato della barriera c’è uno schermo che registra l’arrivo delle particelle, per esempio, una lastra fotografica nei casi dei fotoni. Il buon senso ci dice che passino attraverso una o l’altra delle fenditure, invece, non lo fanno, al contrario, vanno verso alcune parti dello schermo e ne evitano altre, creando bande alternate di luce e di buio. Queste cosiddette frange d’interferenza, sono del tipo che si ottiene quando due insiemi di onde si sovrappongono. Quando le creste di un’onda si allineano con le creste di un’altra, si ottiene un’interferenza costruttiva (bande luminose) e quando si allineano con gli avvallamenti, si ottiene un’interferenza distruttiva (buio). Ma c’è solo un singolo fotone che attraversa l’apparecchiatura in ogni dato momento. È come se il fotone stesse attraversando entrambe le fessure contemporaneamente, interferendo con se stesso e questo non ha alcun senso per la fisica classica. Dal punto di vista matematico, tuttavia, ciò che attraversa entrambe le fessure non è una particella fisica o un’onda fisica, ma una funzione matematica astratta, la funzione d’onda, che rappresenta lo stato del fotone, ovvero il suo modulo quadro rappresenta la densità di probabilità dello stato sulle posizioni in un certo intervallo di tempo. La funzione d’onda si comporta come un’onda che investe le due fenditure e nuove onde, generate da ogni fenditura sul lato opposto, si propagano e, alla fine, interferiscono l’una con l’altra. La funzione d’onda combinata, può essere usata per calcolare le probabilità dove potrebbe trovarsi il fotone. Il fotone ha un’alta probabilità di trovarsi dove le due funzioni d’onda interferiscono costruttivamente e una bassa probabilità di trovarsi, invece, in regioni d’interferenza distruttiva. In questo caso, si dice che la misurazione fa collassare la funzione d’onda, che passa dall’essere diffusa, prima della misurazione, all’essere concentrata in uno dei punti, in cui il fotone si materializza dopo la misurazione. Questo apparente collasso indotto dalla misurazione della funzione d’onda è la fonte di molte difficoltà concettuali nella meccanica quantistica. Prima del collasso non c’è modo di dire con certezza dove inciderà il fotone, potrà apparire in uno dei qualsiasi dei punti di probabilità diverso da zero, e non c’è modo di seguire la traiettoria del fotone dalla sorgente al rivelatore. Il fotone, in un certo senso, non è ancora reale.

Werner Heinsenberg, tra gli altri, interpretò il collasso dell’onda sostenendo che la realtà non esiste fino a quando non viene osservata. Anche John Wheeler ha usato una variante dell’esperimento della doppia fenditura, il cosiddetto “esperimento di scelta ritardata”, per capire, se, come e quando l’osservatore è in grado di influenzare il comportamento dell’oggetto quantistico che sta osservando, ossia la natura di un osservabile quantistico come è intrinsecamente legata alla modalità di osservazione. I risultati dell’esperimento lo portarono a sostenere che, nessun fenomeno quantistico elementare è un fenomeno, fino a quando non si tratta di un fenomeno osservato. Ma la teoria quantistica non è del tutto chiara su che cosa costituisca un’osservazione. Postula che il dispositivo di misurazione debba essere di tipo classico, senza però definire dove sia il confine tra classico e quantistico, lasciando così aperta la porta a chi pensa che, per il collasso dell’onda, debba essere invocata la coscienza umana. Il fisico Henry Stapp ha sostenuto che, l’esperimento della doppia fenditura e le sue varianti moderne, forniscono la prova che “un osservatore consapevole” potrebbe essere indispensabile per dare un senso al regno quantistico e che una mente transpersonale è alla base del mondo materiale.

Tuttavia, vi sono anche altri modi di interpretare l’esperimento della doppia fenditura, per esempio, la teoria di de Broglie-Bohm afferma che la realtà è sia ondulatoria che particellare. Un fotone si dirige verso la doppia fenditura con una posizione ben definita ogni momento e attraversa una fenditura oppure l’altra. Quindi ogni fotone ha una traiettoria e sta’ cavalcando un’onda pilota che attraversa entrambe le fenditure, produce l’interferenza e viene guidato in una posizione d’interferenza costruttiva. Nell’ultimo decennio, i fisici sperimentali hanno verificato che tali traiettorie esistono, anche se hanno utilizzato una tecnica controversa, chiamata misurazione debole. Nonostante le controversie, gli esperimenti mostrano che, la teoria di de Broglie-Bohm, è ancora valida come spiegazione del comportamento quantistico. Cruciale è il fatto che la teoria non ha bisogno di osservatori, né di misurazioni, né di una coscienza non-materiale. E nemmeno ne hanno bisogno le cosiddette teorie del collasso, che sostengono che le funzioni d’onda collassano in modo casuale. Quanto più è elevato il numero di particelle nel sistema quantistico, tanto più è probabile il collasso e gli osservatori si limitano a scoprire il risultato. Le teorie del collasso prevedono che, quando hanno una massa che supera una certa soglia, le particelle di materia non possano rimanere in una sovrapposizione quantistica e, così, di attraversare entrambe le fessure contemporaneamente, perché ciò distruggerebbe la figura di interferenza. Il fisico Roger Penrose ha una sua versione di teoria del collasso, nella quale, quanto più è massiccio l’oggetto in sovrapposizione, tanto più velocemente collasserà in uno stato o nell’altro, a causa delle instabilità gravitazionali. Ancora una volta sì tratta di una teoria indipendente dall’osservatore. La versione concettuale dell’esperimento della doppia fenditura di Penrose è di mettere un fotone in una sovrapposizione di stati, in modo che passi attraverso due fenditure contemporaneamente, ma anche, di porre una delle fenditure in una sovrapposizione di due posizioni contemporanee. Secondo Penrose, la fessura dislocata rimarrà in sovrapposizione o collasserà mentre il fotone è in volo, portando a diversi tipi di schemi di interferenza. Il collasso dipenderà dalla massa della fenditura.


    Se non altro questi esperimenti stanno a dimostrare che non possiamo ancora fare affermazioni sulla natura della realtà, anche se sono ben motivate matematicamente e filosoficamente, e dunque la nostra mente conscia potrà mai capire la coscienza? Inoltre affermare che la coscienza umana influenza la realtà o che il collasso della funzione d’onda esibisce le stesse caratteristiche di scelta e di determinazione della realtà attribuite alla coscienza appare, ad oggi, ancora prematuro nella migliore delle ipotesi. Dunque, ancora, potrà mai il nostro cervello comprendere completamente il nostro cervello? Ossia in un certo senso, parafrasando, come nei teoremi di incompletezza di Kurt Gödel, che sono tra i risultati più profondi e spettacolari conseguiti dalla logica del Novecento, una mente che non può uscire da se stessa per rendersi conto della propria natura può spiegarsi, con le scienze, all’interno delle sue parti? Poiché ogni scienza ha un “al di fuori” di se stessa, ma non la psicologia, il cui oggetto è soggetto di ogni scienza in generale. Tuttavia, non c’è modo di sfuggire alla, non intuitiva, meccanica quantistica: alla fine, siamo tutti gatti di Schrödinger chiusi in qualche scatola.


Psyché

    Il bisogno dell’uomo a raccontarsi pare sia una necessità primaria che precede la scrittura. Omero e i poeti dell’antichità, i più grandi narratori di tutti i tempi, composero le loro opere prima della scrittura. Lo psicoanalista Luigi Zoja arriva a dedurre che tale impulso nasca con la parola per dare voce al bisogno profondo di dire, di raccontare. Numerosi ricercatoti sostengono che la parola nacque perché l’evoluzione sviluppò nell’uomo il cervello, ma allo stesso tempo la selezione evolutiva favorì lo sviluppo del cervello poiché l’uomo andava differenziandosi dagli animali anche per un complesso bisogno di esprimersi e raccontarsi. Il racconto “mythos” è la forma dell’anima “psyché”, la sua intima strategia, il suo modo di esprimersi e di manifestarsi. Una predisposizione universale a narrarsi, che esiste da sempre, naturalmente salutare, un fantasticare che Jung chiamò mythologhéin. Nessuno dubita che l’uomo sia un animale immaginante, che la sua «psiche» sia abitata da immagini «mentali» di notte e di giorno, cosicché le immagini siano «realtà antropologiche» come le mani, il pollice opponibile, l’andatura eretta e simili. Come disse Carlo Sini “l’immagine è il cuore della «strategia dell’anima»”, “l’evento che ha dato origine alla filosofia platonica e, con essa, al grande quadro di riferimento concettuale che alimenta e sorregge l’intera tradizione dei nostri saperi filosofici e scientifici”. 

La mitologia intesa come narrazione per immagini, infatti, non è l’abolizione della ragione, ma piuttosto il suo controcanto, come Platone in uno dei suoi dialoghi più celebri, il Protagora, ha sostenuto che una stessa verità si può dimostrare sia mediante un “ragionamento” che con un “racconto”, sia attraverso concetti astratti, proporzioni numeriche, consequenzialità logiche, che con l’ausilio di metafore, emblemi e immagini. Inoltre, la vita dell’uomo non sarebbe solo improntata sul procurarsi tecniche e strumenti per sopravvivere, ma sull’invenzione di un senso del mondo, occuparsi del mondo immaginale non significa dunque incarnare solamente l’atteggiamento dello scienziato che vuole “conoscere” la verità costruendo la sua teoria scientifica “il filosophos”, ma anche quello del poeta, dell’esploratore più interessato a “comprendere”, entrare in contatto con le profondità dell’essere, partecipare e vivere l’esperienza dell’immagine, entrare a “confronto” con essa “il philomythos”. Nella sua opera, del 1930, “Die Psychoanalyse, Psychoanalytische Psychologie” Jung  scrisse “[…] Se mai la psiche dell’uomo è qualcosa, essa è enormemente complicata e di illimitata molteplicità, io posso solo contemplare con muta ammirazione, con la più profonda meraviglia e con timore, gli abissi e le vette della natura psichica, il cui mondo aspaziale cela una quantità smisurata d’immagini, che milioni di anni di evoluzione hanno accumulato e condensato organicamente. La mia coscienza è come un occhio che accoglie in sé gli spazi più lontani, ma il non-Io psichico è ciò che riempie aspazialmente questo spazio. E queste immagini non sono pallide ombre, ma determinanti psichiche potentemente attive che possiamo solo fraintendere, mai però privare della loro energia, col negarla. Non saprei paragonare questa impressione se non alla visione del cielo stellato, perché l’equivalente del mondo interno è solo il mondo esterno, e come raggiungo questo mondo per mezzo del corpo, raggiungo quello per mezzo dell’anima”. La coscienza per Jung è “occhio che accoglie”, che osserva, che guarda il fenomeno dell’immagine così come si presenta ad uno sguardo muto. Il ricorso a termini quali “meraviglia” e “timore” ci rimanda esplicitamente all’atteggiamento originario della prima scienza: la filosofia. Nel Teeteto di Platone infatti, in un momento cruciale del dialogo, il giovane matematico rivolgendosi a Socrate che con la sua arte maieutica lo porta, ancora una volta, sull’orlo dell’abisso conoscitivo esclamando: “Per gli déi Socrate! Sono straordinariamente meravigliato dalla natura di tutto ciò, tanto che, a volte, esaminandolo a fondo, mi vengono le vertigini”. E Socrate gli risponde “[…] ciò che provi, la meraviglia, è un sentimento assolutamente tipico del filosofo. La filosofia non ha altra origine che questa e, a quanto pare, chi ha definito Iride figlia di Taumante non ha tracciato una cattiva genealogia”. La filosofia nasce dalla meraviglia che Platone identifica con Iris, la dea di nome “Arcobaleno” figlia del gigante Taumante. Anche Aristotele, all’inizio della Metafisica, scrive: “[…] Gli uomini furono mossi a filosofare, allora come ora, dalla meraviglia”. La parola usata da Aristotele è il verbo thaumazein costruito sulla parola thauma che possiamo tradurre certamente con meraviglia o stupore.

Un’esperienza di meraviglia come Jung ha sperimentato nel suo incontro diretto con i materiali incandescenti del suo inconscio, dove l’affinità di thauma con il verbo theàomai ci rimanda proprio a parole come “vedere”, “contemplare” e “ammirare”, tuttavia, in modo tale da alimentare la coscienza e non divorarla, poiché egli cerca una integrazione tra le due polarità e non un annichilimento dell’Io. Il compito dell’uomo gli appare sempre più come quello di costituirsi in unità organica di tutti i contenuti psichici, cosicché l’Io divenga centro di una complessa sfera di relazioni dinamiche con l’inconscio e di tali relazioni si arricchisca in un processo continuo di sviluppo. Sebbene il rischio sia quello della dispersione della forza operante dell’Io nelle strutture dell’inconscio: vero e proprio naufragio dell’individualità nella notte di un mondo arcaico personale e traspersonale. In quanto o l’Io stabilisce dei rapporti dinamici e creatori con gli elementi dell’inconscio, trasformando e arricchendo la personalità, oppure naufraga in tali contenuti, assumendo comportamenti e modalità arcaiche, rischiando la prigionia in un mondo di configurazioni che non domina più. In altre parole la struttura centrale del suo pensiero, il nucleo profondo, è nell’implicito concetto di “individuazione”, ossia quel processo per cui, con operazioni complementari di differenziazione e di integrazione, la personalità si costituisce in un tutto unitario e organico, e la sfera inconscia si integra con quella della coscienza, permettendo all’individuo di attingere a una pienezza di vita altrimenti sconosciuta.


    La psiche è un mistero indefinibile alla sola luce delle scienze naturali, ma anche un enigma che si può raccontare e comprendere mediante la narrazione del mito, in un discorso la cui essenza è relazionale e che si può collocare piuttosto nelle scienze umane o scienze dello spirito, perché l’anima è anche una prospettiva piuttosto che una “sostanza”, un punto di osservazione sulle cose piuttosto che una cosa in sé. L’etimologia del termine psyché si riconduce all’idea del “soffio”, ossia del respiro vitale, presso i greci designava l’anima in quanto originariamente identificata con tale respiro. In questo senso, la storia del concetto di psiche viene a coincidere con quella del concetto di anima che filosofi come Eraclito, Socrate e soprattutto Platone hanno contribuito a definire. Per Socrate il compito più importante dell’uomo è la cura dell’anima poiché ne costituisce l’essenza. L’anima è un enigma, forse il vero e grande mistero dell’essere, come suggerisce già Eraclito agli albori del pensiero occidentale “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos”, cioè il télos, ossia il discorso che possiamo costruire intorno a questo mistero, che non è qualcosa che si possa facilmente distendere, spiegare nella sua complessità una volta per tutte, ma piuttosto un ordito da tessere, come la tela di Penelope, che ha bisogno di tempo, perché si arricchisce e alimenta progressivamente se stesso di significati sempre nuovi, si “amplifica”, sicché “è proprio dell’anima un lógos che accresce se stesso”. L’anima è immagine, simbolo, metafora, mito in grado di generare il significato in quanto occhio soggettivo rivolto all’interno, verso se stesso, che guarda il proprio sguardo, un fattore umano sconosciuto che rende possibile il significato, che trasforma gli eventi in esperienze e che si comunica nell’amore, e come dice Jung “La ricchezza della psiche umana e il suo carattere essenziale, sono probabilmente determinati da questo istinto riflessivo”. “[…] Per l’intelletto il mythologhéin è una speculazione futile; ma per l’anima è una attività salutare, che da all’esistenza un fascino che ci dispiacerebbe perdere. E non c’è alcuna buona ragione per doverne fare a meno”, C.G. Jung dalla sua opera “Sogni, ricordi, riflessioni”.



“He looked at his own Soul with a Telescope.
What seemed all irregular,
he saw and shewed to be beautiful Costellations;
and he added to the Consciousness
hidden worlds within worlds.

Esplorò la sua Anima con un Telescopio.
E tutto quanto vi appariva irregolare,
egli vide e dimostrò essere splendore di Costellazioni.
E aggiunse mondi e modi nascosti alla Coscienza.”

— Samuel Taylor Coleridge



    A conclusione, di più recente pubblicazione, U. Galimberti, in “Psichiatria e fenomenologia”, riprende il delicato e significativo tema del “dualismo ontologico” di Cartesio che ha lacerato l’uomo in anima “res-cogitans” e corpo “res-extensa”, poiché inoltre come scrive Pascal “[…] Ciò che completa la nostra impotenza di conoscere le cose è che esse sono semplici in sé e che noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso, l’anima e il corpo. È impossibile che la parte che in noi ragiona non sia quella spirituale; e se si pretendesse che fossimo semplicemente dei corpi, questo ci escluderebbe ben di più dalla conoscenza delle cose, niente essendo così poco plausibile dell’affermazione che la materia conosce se stessa. Non ci è possibile conoscere come essa si conoscerebbe. E così, se [siamo] semplicemente materiali, non possiamo conoscere niente del tutto, e se siamo composti di spirito e materia, non possiamo conoscere perfettamente le cose semplici, spirituali o corporali”. Mentre Galimberti lo affronta scrivendo “Non più anima e corpo, ma ‘corpo vivente’, che sta al mondo non come le cose del mondo, opacamente, ma come ‘apertura originaria’, coscienza intenzionante che rende possibile il senso e il significato. […] Chiamiamo questa apertura originaria, che precede ogni distinzione tra soggetto e oggetto, fra interiorità ed esteriorità, fra conscio e inconscio: presenza, intendendo con questo termine dell’assoluto che non ha nulla «dietro» di sé, perché ciò che è e ciò che si manifesta coincidono […]. Parlare del corpo non significa quindi riferirsi ad un oggetto del mondo, ma a ciò che dischiude un mondo”.



Psicologia come scienza umana  – soft science –

    Da diversi punti di vista, il tentativo di inserimento della psicologia nelle scienze naturali sembrerebbe essere un paradosso, poiché innanzitutto la scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente guidare da una sola delle sue ideazioni. A tal senso come osserva il filosofo e matematico Edmund Husserl, se il metodo scientifico è uno dei molteplici approcci con con cui possiamo indagare il mistero dell’anima e i suoi fenomeni, “[…] L’inserimento della psicologia in una ontologia biologico-organicista è una riduzione che mina alla radice l’unità della persona”. Inoltre, nelle scienze naturali cerchiamo di afferrare soltanto un tipo di relazioni, ovverosia le relazioni di causalità. Mediante l’osservazione e la sperimentazione o la raccolta di molti casi, nonché dati, cerchiamo poi di individuare le modalità e strutture dell’evento. A un livello più profondo e fine rinveniamo inoltre anche le leggi che possiamo esperire in modelli e formule matematiche. Tuttavia, in psicologia mai e poi mai possiamo stabilire equazioni di causalità come in fisica o in chimica perché questo presupporrebbe una completa quantificazione dei processi indagati. “[…] Ma nello psichico, che per sua natura precipua è sempre qualitativo, questa quantificazione per principio non è mai possibile, senza che vada perduto il vero oggetto di indagine, cioè lo psichico”, Karl Jaspers in “Psicopatologia generale” del 1913. Analogamente la soggettività non può essere conosciuta da nessuna scienza oggettiva perché non è in grado di verificarsi. Ancora, quando la scienza vuole occuparsi della psiche, della soggettività, non riesce a cogliere la verità in quanto le conclusioni a cui approda non sono altro che il risultato delle premesse che ha postulato e in particolare del metodo che ha adottato per indagarla. Nella spiegazione ciò che viene enunciato può essere ridotto e ricondotto, semplicemente, a ciò che è stato anticipatamente presupposto. La psiche è per definizione il luogo stesso dell’unicità e dell’irripetibilità.

E’ anche l’incontro fra personalità uniche, in un luogo e momento storico altrettanto unici, che moltiplica all’infinito i fattori che lo rendono diverso da qualunque altro, un mistero che non si può spiegare ma solamente narrare, un mistero nel quale i miti personali s’intrecciano a formare una nuova “equazione personale” unica e irripetibile, un nuovo mito. Un mistero nel quale la saggezza antica come la odierna fisica quantistica, l’opera junghiana, ci suggerisce che, questo tópos che chiamiamo psyché è una realtà in continuo movimento e mutamento, accrescimento e cambiamento.





 

Fonti e letture consigliate

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  • J.C. Eccles, How the self controls its brain (1994).
  • S. Freud, Opere (1991).
  • J. Hirsch, Raising consciousness. The Journal of Clinical Investigation (2005).
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  • E. Racine & J. Illes, Imaging or Imagining? A neuroethics challange informed by genetics (2005).
  • P.S. Churchland, Consciousness: the trasmutation of a concept. Pacific Philososophical Quarterly (1983).
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  • E. Schrödinger, L’immagine del mondo (2018).
  • K. W. Ford, Il mondo dei quanti: la fisica quantistica (2004).
  • L. Susskind & A. Friedman, Meccanica quantistica (2018).
  • C. Sini, I segni dell’anima (1989).
  • Platone, Teeteto.
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  • L. Zoja & S. Argentieri & S. Bolognini & A. Di Ciaccia, In difesa della psicoanalisi (2003).
  • Aristotele, Metafisica.
  • Eraclito: traduzione a cura di H. Diels & W. Kranz, Iframmenti dei presocratici (1983).
  • C.G Jung, Psychologische Typen (Tipi Psicologici), (1920).
  • C.G Jung, Die Psychoanalyse, Psychoanalytische Psychologie ( Psicoanalisi e Psicologia Psicoanalitica) (1930).
  • C.G. Jung, Erinnerungen, Traume, Gedanken von C.G. Jung (Sogni, ricordi, riflessioni di C.G. Jung) (1961).
  • C.G. Jung, Theoretische Überlegungen zum Wesen des Psychischen (Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche), (1947).
  • C.G. Jung, Aion: Untersuchungen zur Symbolgeschichte (Aion: ricerche sul simbolismo del Sé), (1951).
  • C.G. Jung, Die Psychologie der Übertragung erläutertanhand einer alchemistischen (La psicologia della traslazione), (1946).
  • C.G. Jung, Letters (Lettere), (1906- 1961).
  • C.G. Jung, Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbewussten (Le relazioni tra l’Io e L’inconscio)(1928).
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  • K. Jaspers, Psicopatologia generale (1913).